Se si cura una malattia, si vince o si perde; ma se si cura una persona, vi garantisco che si vince, si vince sempre, qualunque sia l’esito della terapia.
– Patch Adams –
Di cosa mi occupo
Sono una Psicologa Psicoterapeuta della Gestalt, formata in Gestalt Body Work, specializzata in EMDR ed esperta di tematiche inerenti la Donazione ed il Trapianto di organi e tessuti.
Nelle Scuole primarie e secondarie mi sono occupata di disabilità, dispersione scolastica e di bullismo omofobico.
Svolgo consulenza, sostegno psicologico, psicoterapia in setting individuale, di coppia e di gruppo, laboratori esperienziali, formazione e supervisione in ambito clinico e aziendale.
Approccio teorico
Aree di intervento
Ansia è un termine che indica un insieme complesso di reazioni cognitive, comportamentali e fisiologiche che si manifestano in seguito alla percezione di uno stimolo ritenuto minaccioso e nei cui confronti non ci si ritiene sufficientemente capaci di reagire.
È una normale risposta dell’organismo a un pericolo e di per sé non è dannosa. Si tratta di un’emozione che ha le sue radici nella paura ed è importante perché funzionale alla sopravvivenza. Comporta uno stato di attivazione (attacco o fuga) dell’organismo quando una situazione viene percepita come pericolosa.
L’ansia diventa un problema quando prende il sopravvento e impedisce una vita serena: si manifesta in situazioni non appropriate, si verifica spesso oppure è talmente intensa e di lunga durata da interferire con le normali attività della persona.
Esiste un’ampia varietà di disturbi d’ansia. I più comuni sono il disturbo d’ansia generalizzato (DAG), il disturbo di panico (DP), l’ipocondria, la fobia sociale, le fobie specifiche, il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) e il disturbo post traumatico da stress (DPTS). Spesso tali disturbi si accompagnano a quelli dell’umore. Le persone vengono sempre più spesso in psicoterapia per vissuti legati all’ansia e agli attacchi di panico e questo dà la dimensione di quanto tali disturbi siano diffusi e correlati con il vivere nella nostra società occidentale.
I disturbi dell’umore sono un insieme di sindromi chiamate anche “disturbi affettivi” nei quali la persona vive una grave alterazione del tono dell’umore, duratura nel tempo, che interferisce sulle normali funzioni sociali (amicali e familiari) e lavorative.
I disturbi dell’umore sono un insieme di patologie, tra loro piuttosto differenti, ognuna delle quali è caratterizzata da alcuni sintomi specifici. Ciò che li accomuna tra loro è un quadro emotivo intenso, di profonda depressione o eccessiva euforia, che crea marcato disagio psicologico sociale e relazionale.
Le alterazioni del tono dell’umore sono principalmente:
– la depressione caratterizzata da tristezza, calo della spinta vitale e ideazioni pessimistiche fino a pensieri autolesivi;
– la mania caratterizzata da eccessiva euforia, logorrea, aumento della velocità del pensiero fino a sfociare in sintomi psicotici come deliri;
– l’umore misto caratterizzato dalla presenza di sintomi depressivi e sintomi maniacali, detto anche umore disforico.
Alcune persone presentano una depressione unipolare con un tono d’umore basso alternato a momenti di eutonia (umore in equilibrio). Altre sviluppano invece un disturbo bipolare in cui si alternano momenti di depressione e momenti di mania (o ipomania).
Il disturbo depressivo maggiore è il più conosciuto, diffuso e con il più alto trend di crescita soprattutto nella cultura occidentale. La frequenza con cui si manifesta la depressione nella popolazione generale è molto alta rispetto ad altre patologie o disturbi psichiatrici, seconda solamente ai disturbi d’ansia, colpisce una larga parte della popolazione.
Riconoscere un disturbo depressivo in fase iniziale è importante in quanto più rapida è la diagnosi migliore è la prognosi. Molto spesso invece le persone convivono con tale disturbo per poi chiedere aiuto a uno specialista mediamente dopo due anni dal suo esordio.
È importante sottolineare come non tutte le modificazioni del tono dell’umore siano da considerarsi patologiche. A tutti capita di provare in alcuni momenti della propria vita sentimenti come tristezza, sconforto, pessimismo.
Essere tristi è normale e fa parte della vita ma in un soggetto che non soffre di disturbi del tono dell’umore queste sensazioni hanno breve durata.
Un percorso di crescita personale permette di sviluppare una maggiore conoscenza di sé, rende consapevoli rispetto ai propri limiti e risorse, migliora l’autostima, l’assertività e le relazioni interpersonali. Favorisce un’esistenza più soddisfacente per il raggiungimento di obiettivi che sono coerenti con delle concrete possibilità di realizzazione.
In una prospettiva fenomenologica, olistica ed esperienziale viene data molta importanza all’espressione corporea della personalità. Problemi quali per esempio obesità, sofferenze psicosomatiche, insensibilità emozionale, tensione cronica, mancanza di espressività emotiva, mal di testa, disturbi sessuali indicano che la nostra è un’esistenza “incarnata”. Noi siamo il nostro corpo. In tale ottica si comprende come i disturbi psicosomatici siano dei tentativi di adattamento del nostro organismo a situazioni difficili e come il vissuto mentale si intrecci con quello corporeo in una profonda interrelazione.
È importante cogliere il senso profondo dei propri vissuti corporei per riappropriarsi del benessere.
Persone con alto grado di autostima e assertività presentano ottime capacità di adattamento e si dimostrano più resistenti allo stress e ai compiti difficili. Il grado di autostima è legato al sentimento di quanto ci si sente importanti, unici e irripetibili e influenza la convinzione di poter essere amati e apprezzati anche dagli altri per ciò che si è. Avere stima di sé significa riconoscere le proprie risorse e i propri limiti senza dipendere dal giudizio altrui. Vuol dire anche crescere e realizzarsi, riconoscendo che ognuno ha il suo personale modo sia in campo umano che professionale. Il senso di autostima pone le sue basi nell’infanzia, ma continua a svilupparsi e a modificarsi durante l’intera esistenza. Il modo in cui si è accuditi e amati da piccoli è il nucleo e la base della possibilità di considerarsi come persone amabili e/o degne di essere amate. È frequente una bassa autostima tra coloro che hanno subito abusi fisici o psicologici durante l’infanzia. Ci sono delle evidenze scientifiche circa l’importanza dell’autostima per la salute mentale. Un basso grado di autostima è infatti correlato all’insorgenza di stati depressivi e alti livelli di ansia.
Autostima e assertività sono due competenze legate tra di loro: una autostima salda offre quel senso di sicurezza che permette di avere fiducia delle proprie idee e non temere quindi il confronto con gli altri.
L’assertività è generalmente associata ad uno specifico stile di comunicazione che rafforza la capacità di gestire le relazioni con gli altri. Comunicare in modo assertivo consiste nella capacità di esprimere e promuovere le proprie idee senza farsi schiacciare dagli altri e rispettando, al tempo stesso, le opinioni altrui. Il lavoro in psicoterapia favorisce un generale miglioramento dell’autostima e dell’assertività poiché accresce l’apprezzamento e l’accettazione di sé.
La sessualità costituisce il nucleo centrale dell’identità della persona. E’ una forma di espressione che riguarda il modo di porsi in relazione agli altri. Non coincide con gli organi genitali ed il loro funzionamento ma comprende l’intero corpo e tutta la persona. La sessualità coinvolge aspetti psicologici, biologici, culturali. E’ fatta di sensazioni, emozioni, gioco, relazione, comunicazione, scambio di piacere e di intimità. Piacere e desiderio sono importanti per accendere la sessualità ma il più potente motore sta dentro la testa ed è l’immaginario.
Quando ci si occupa di sessualità si parla spesso di censura o di libertà del comportamento sessuale in base al costume, alla morale del luogo e dei tempi in cui si vive.
L’identità sessuale di una persona si sviluppa intorno a quattro aspetti fondamentali: il sesso biologico, l’identità di genere, l’orientamento sessuale, il ruolo di genere.
Il sesso biologico è l’appartenenza dal punto di vista biologico al sesso maschile o femminile, definito dai cromosomi sessuali, dagli ormoni, dai genitali esterni e interni e dalla conseguente conformazione complessiva del corpo. L’Identità di genere è quel senso di appartenenza di una persona a un genere con il quale essa si identifica: maschile, femminile o entrambi. Si definisce entro i primi tre anni di vita e, come nel caso delle persone transgender, non sempre corrisponde al sesso assegnato alla nascita. Tale appartenenza può esprimersi quindi con vissuti e comportamenti corrispondenti o meno al sesso biologico. L’identità di genere non determina l’orientamento sessuale. L’orientamento sessuale si riferisce all’attrazione sentimentale e/o sessuale di una persona verso persone di sesso opposto, dello stesso sesso o di entrambi per cui ci si può identificare rispettivamente come eterosessuale, omosessuale o bisessuale.
Il ruolo di genere è l’insieme di aspettative sociali e di ruoli che definiscono come uomini e donne debbano essere e comportarsi in una determinata cultura e in un dato periodo storico, il modo in cui una persona manifesta il proprio essere maschio o femmina indicando se aderisce alle norme sociali sul maschile e femminile.
Mi sono occupata di tematiche relative all’orientamento sessuale e all’identità di genere nell’ambito del Progetto Europeo Eurialo contro le discriminazioni verso le persone LGBT (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali) nelle scuole e in altri contesti sociali, come supervisore degli psicologi dello Sportello di Ascolto dell’Associazione Libellula, che sostiene le persone transgender, attivato presso la ex ASL Roma E.
Nella pratica clinica accompagno quotidianamente le persone nell’esplorazione dei vissuti relativi alla sessualità.
Con il trapianto di organi si è passati da una chirurgia puramente demolitiva, per la quale era fondamentale l’asportazione dell’organo malato, ad una chirurgia ricostruttiva che restituisce all’organismo l’integrità funzionale con la sostituzione dell’organo stesso.
L’intervento psicologico in questo campo si articola in due grandi filoni di lavoro e di studio, quello della donazione e quello del trapianto. Entrambi si inseriscono in un quadro delicato e complesso fatto di sofferenze, malattie croniche, lutti, traumi, ma anche di speranze, guarigioni e rinascite.
Da una parte ci sono persone malate, anche da anni, che attendono un organo o un tessuto per salvarsi la vita o per migliorarla sensibilmente, dall’altra ci sono coloro che possono offrire questa possibilità di vita come donatori, da vivente o da cadavere.
Per la complessità del fenomeno il sostegno psicologico in questo ambito è rivolto a diversi livelli: ai donatori da vivente, che salvando la vita a un proprio caro, hanno un impatto fisico e psicologico dell’esperienza; ai malati, la cui sopravvivenza è appesa al filo della speranza di un trapianto, per l’elaborazione del difficile periodo vissuto prima durante e dopo l’operazione; ai parenti di un donatore da poco morto che si trovano a interpretare nel momento di maggior dolore la volontà del proprio caro per ridare una speranza di vita a qualcun altro; ai professionisti, medici e infermieri, che hanno bisogno di ricevere una supervisione per non andare in burnout data la delicatezza della materia gestita.
Ammalarsi di cancro è un avvenimento traumatico che investe la persona non solo nella dimensione fisica ma in quella psicologica, spirituale, interpersonale e sociale. Comprendere il vissuto della persona, l’impatto della malattia e delle conseguenti terapie è un punto fondamentale per fornirle la necessaria assistenza.
Se l’ansia, la paura, la preoccupazione, la demoralizzazione, la rabbia sono normali risposte alla malattia, quando queste rimangono intense nel tempo, continue e durature, è importante chiedere un sostegno psicologico senza vergogna e paura di essere etichettati come “deboli”. Chiedere aiuto è auspicabile non solo perché il dolore psicologico ha la stessa dignità del dolore fisico, affrontare l’uno permette di sostenere anche l’altro, ma serve anche a sentirsi meno soli e spaventati.
La parola lutto fa riferimento al periodo di tempo dopo la perdita di una persona cara e a tutti i sentimenti di dolore e tristezza ad esso collegati.
È un’esperienza altamente personale: non esiste un modo giusto o sbagliato per vivere un lutto.
La reazione alla perdita dipende da molti fattori come la personalità, le esperienze di vita, l’età, i valori personali, la rete sociale e di supporto, il tipo di rapporto e la qualità della relazione con la persona scomparsa.
È un processo che ha bisogno di tempo. Non si può velocizzare e non esiste un periodo giusto a prescindere. Ogni lutto è differente e può portare con sé vissuti molto profondi e dolorosi. Con il tempo il dolore e la tristezza si alleviano e si può accedere al ricordo della persona persa in modo meno drammatico. Tuttavia, ci sono persone in cui la sofferenza rimane intensa anche dopo parecchio tempo dall’evento; è possibile in questo caso che il fisiologico processo di elaborazione sia bloccato e richieda l’intervento di uno specialista.
Generalmente quando le coppie arrivano in terapia sono in crisi già da tempo.
I principali motivi del conflitto derivano da diversi fattori come il retroterra culturale, educativo e di esperienze di ciascun partner che producono sostanziali differenze tra loro circa la personale visione del mondo, il modo di intendere il comportamento dell’altro e di relazionarsi. Per non parlare poi delle aspettative, spesso inconsapevoli, che ciascun partner ripone nell’altro nella speranza che questi possa “curare” quelle ferite del proprio bambino interiore generatesi nell’infanzia in riferimento alle figure di attaccamento significative (genitori, caregiver).
Tutto questo comporta difficoltà circa la comunicazione, l’ascolto, la capacità di trovare un accordo e di venirsi incontro. Ognuno è convinto che la propria posizione sia quella corretta e che l’altro debba cambiare punto di vista e comportamento senza alcuna possibilità di intermediazione. Così le persone finiscono per litigare, discutere, smettere di parlare creando distanze siderali tra loro. E se ci sono dei figli questi purtroppo si trovano a vivere il clima di conflitto e di distanza affettiva dei genitori risentendone emotivamente.
La terapia può aiutare a chiarire le idee e i sentimenti, a comunicare, a capire se si vuole stare ancora insieme con una nuova comprensione e slancio vitale, o se separarsi definitivamente. In quest’ultimo caso quando la coppia ha dei figli viene aiutata a gestire la genitorialità in modo da rendere la separazione, per quanto dolorosa, una possibilità di crescita per tutti.
Questo intervento è rivolto ai genitori per favorire una relazione serena con il figlio/a, per dare un sostegno allo stile educativo e comunicativo della famiglia nel suo complesso e sostenere al meglio lo sviluppo psicologico del/la giovane.
Ho lavorato per diversi anni con bambini e adolescenti portatori di disabilità fisica e/o psichica nelle scuole e in assistenza domiciliare toccando con mano quanto sia importante nei contesti educativi promuovere l’autonomia della persona per favorirne l’integrazione sociale, il benessere e alleviare la sofferenza dei familiari.
L’intervento psicologico può aiutare la persona a lavorare sull’autostima, individuando punti di forza e di debolezza, e sull’espressione dei vissuti emotivi legati alla condizione di disabilità e non solo.
In questo campo è altrettanto importante il lavoro di supervisione degli operatori per prevenire il rischio di burnout, sia per la precarietà delle condizioni di lavoro nel sociale che per le difficoltà specifiche vissute, soprattutto quando ci si confronta con ripetuti fallimenti rispetto agli obiettivi prefissati, che possono generare sentimenti di impotenza e delusione.
La parola trauma deriva dal greco e vuol dire “ferita”. Il trauma psicologico è dunque una “ferita dell’anima” che rompe e impatta negativamente nel consueto modo di vivere e vedere il mondo della persona. Esistono diverse forme di esperienze traumatiche a cui si può andare incontro nel corso della vita. Esistono i “piccoli traumi” o “t”, ovvero quelle esperienze soggettivamente disturbanti caratterizzate da una percezione di pericolo non particolarmente intensa come, per esempio, un’umiliazione subita o delle interazioni brusche con delle persone significative durante l’infanzia. Accanto a questi si collocano i traumi “T”, ovvero quegli eventi che portano alla morte o che minacciano l’integrità fisica propria o delle persone care. Si tratta di eventi di grande portata, come ad esempio disastri naturali, abusi, incidenti. Alcune persone continuano a soffrire per un evento traumatico anche a distanza di moltissimo tempo. Spesso riportano di provare le stesse sensazioni angosciose e di non riuscire per questo motivo a condurre una vita soddisfacente dal punto di vista lavorativo e relazionale. Questo quadro di sintomi, che può arrivare fino a configurarsi in un Disturbo da Stress Post-Traumatico, è caratterizzato dal “rivivere” nel presente l’evento traumatico continuando a provare tutte le emozioni, sensazioni e pensieri negativi sperimentati in quel momento. In questi casi il passato è presente. E’ quando ci si rende conto di essere bloccati nel passato che è opportuno chiedere aiuto ad uno specialista.
Per il trattamento del trauma e di problematiche legate allo stress, soprattutto quello traumatico, un approccio terapeutico da me utilizzato è l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) che si riferisce alla desensibilizzazione e elaborazione attraverso i movimenti oculari.
In ambito scolastico l’obiettivo è promuovere il benessere all’interno della scuola fornendo un sostegno ad alunni, insegnanti e genitori che si confrontano con una serie complessa di fenomeni e problematiche sociali. Si pensi per esempio al bullismo, alle difficoltà didattiche e di integrazione fra alunni di cultura e lingua diverse.
L’intervento mira alla crescita psicologica dei ragazzi e dei loro vissuti emotivi. Cerca di prevenire il disagio giovanile, contrastare l’esclusione sociale, favorire l’integrazione tra i ragazzi e la valorizzazione della multiculturalità.
Si può realizzare a diversi livelli per esempio attraverso: il sostegno in classe agli alunni in difficoltà (con disturbi dell’apprendimento, deficit di attenzione/iperattività o disabilità); lo Sportello d’ascolto psicologico a disposizione di allievi, insegnanti e genitori per uno spazio di confronto diretto su alcune problematiche; la progettazione di interventi specifici, in affiancamento agli insegnanti, che coinvolgono tutta la comunità scolastica.
L’intervento in sintesi si può articolare nei seguenti punti:
– individuazione di situazioni a rischio, problematiche all’interno della classe/scuola e prevenzione di conflitti o disagi;
– risposta alle problematiche dei ragazzi connesse alla crescita (crisi adolescenziali, sessualità, prevenzione della violenza, uso di alcool, droghe);
– cooperazione nella progettazione di interventi di sostegno e attività extrascolastiche;
– progettazione di interventi di formazione psicologica per insegnanti;
– orientamento scolastico per il supporto nella scelta del percorso formativo più adatto a ogni alunno e prevenzione della dispersione scolastica;
– sostegno psicologico individuale ai ragazzi e ai genitori per gestire situazioni difficili. Agli insegnanti in caso di difficoltà educative e relazionali o personali come disagi psicologici, senso di inadeguatezza.
Ho lavorato nelle scuole partecipando a diverse tipologie di progetti: per favorire la coesione tra alunni insegnanti e genitori, l’integrazione di alunni in difficoltà e ridurre la dispersione scolastica; per contrastare il bullismo nei confronti delle persone LGBT; per favorire l’integrazione di persone con disabilità.